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La soluzione è appesa ad un capello

  • GIALLOsuGIALLO
  • 11 apr 2016
  • Tempo di lettura: 2 min

Lidia Macchi

In seguito alla riesumazione (avvenuta il 22 marzo 2016) del cadavere di Lidia Macchi – la giovane studentessa di Varese uccisa con 29 coltellate nei boschi di Cittiglio nel gennaio del 1987 – è stato isolato un capello che verrà utilizzato per cercare il DNA dell’assassino. Nei 29 anni trascorsi dalla morte della vittima si sono susseguiti troppi errori che hanno impedito il disvelamento della verità: dal trasferimento del PM Abate per il mancato avanzamento delle indagini (da questi motivato con la “cortina di omertà” creata ad hoc da ambienti di Comunione e Liberazione) fino all’incredibile distruzione nel 2000 (su indicazione del GIP D'Agostino) dei vetrini contenenti lo sperma del probabile assassino e dei vestiti di Lidia poiché “prove ormai inservibili”. Eppure il sostituto procuratore generale di Milano, Carmen Manfredda, proprio non si rassegna, anche se quella famosa “lettera” inviata ai genitori della ragazza il giorno dei funerali, grazie alla testimonianza di Patrizia Bianchi (amica della ragazza e a quei tempi innamorata di Stefano Binda ), attribuita proprio al presunto assassino ne ha determinato la custodia cautelare. Lettera che però sembrerebbe non costituire una prova sufficiente; pertanto si è proceduto anche a cercare l'arma del delitto. Infatti, grazie alla testimonianza sempre della Bianchi, è stato perlustrato un terreno nei pressi di Varese dove sono stati rinvenuti sepolti alcuni coltelli. Tra questi ci potrebbe essere quello con Lidia è stata colpita 29 volte dopo essere stata brutalizzata. Ma le speranze di ritrovare tracce utili, dopo così tanto tempo, sono davvero esigue.

Il capello, quindi, sarebbe l'unico reperto biologico. Sottoposto al vaglio della consulente Cristina Cattaneo, già nota alle cronache per un altro procedimento seguitissimo dal pubblico, quello dell’uccisione di Yara Gambirasio, potrebbe però appartenere anche ad una persona estranea all'omicidio.

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